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mercoledì 11 luglio 2012

Immobili

Immobili

Nulla la clausola che obbliga ad inserire nel contratto definitivo il valore catastale

Secondo la Cassazione, tale clausola è nulla, ma non inficia l’intero contratto

/ Giovedì 12 luglio 2012
La clausola, apposta al contratto preliminare di compravendita immobiliare, con la quale le parti si impegnano ad indicare, nel contratto definitivo, il valore catastale dell’immobile (inferiore al corrispettivo effettivamente pattuito), è nulla, ma non è in grado di inficiare l’intera validità del contratto preliminare, a meno che non si provi che il contratto non sarebbe stato stipulato in assenza di tale clausola, in quanto, in sua mancanza, il contratto avrebbe perso, per le parti, l’originaria utilità.
Questa è la conclusione cui perviene la Corte di Cassazione Civile, nella sentenza 11749, depositata l’11 luglio 2012.
La causa scaturisce dalla stipula di un contratto preliminare per persona da nominare, contenente una clausola che imponeva alle parti di indicare nel definitivo, ai fini fiscali, il valore catastale dell’immobile (inferiore rispetto al corrispettivo pattuito). La pattuizione, inoltre, era rafforzata dalla previsione della risoluzione del contratto (clausola risolutiva espressa), in caso di inadempimento.
Al momento di stipulare il contratto definitivo, viene esercitata la riserva di nomina ed il soggetto nominato acquirente pretende di indicare in atto il corrispettivo reale. Il promittente venditore, facendo applicazione della clausola risolutiva, rifiuta la stipula, ritenendo risolto il preliminare. Il promissario acquirente, però, richiede, a norma dell’art. 2932 c.c., l’adempimento in forma specifica del contratto preliminare, con trasferimento della proprietà dell’immobile. Il promittente venditore si oppone, sostenendo la nullità e, in subordine, la risoluzione del contratto.
La vicenda è giunta fino in Cassazione, la quale, con una pronuncia approfondita, ha valutato attentamente la questione.
In via preliminare, la Suprema Corte ha ricordato che, anche secondo la disciplina dell’imposta di registro vigente al tempo dei fatti (anteriori al DL 223/2006, che ha abolito la valutazione automatica, fatta eccezione per le ipotesi di applicazione del “prezzo valore”), le parti avevano l’obbligo di indicare nell’atto di compravendita immobiliare il corrispettivo pattuito (art. 43, comma 1, lett. a) e 51 del DPR 131/86).
Infatti – continua la Corte – l’apparente  disarmonia tra l’art. 52, comma 4 del DPR 131/86 (che pareva legittimare i contribuenti ad indicare in atto il valore risultante dalla moltiplicazione del valore catastale per determinati coefficienti, in quanto al di sopra di tale soglia era precluso al Fisco l’accertamento di valore) e l’art. 72 del medesimo DPR 131/86 (che sanziona l’occultamento anche parziale del corrispettivo convenuto), è stata da tempo risolta. La giurisprudenza (si veda Cass. 14250/2000), infatti, ha chiarito che l’art. 52, comma 4, sulla valutazione automatica, era una norma di natura meramente procedimentale, che poneva un vincolo all’attività di accertamento dell’Amministrazione finanziaria, ma non impediva certo ad essa di agire in rettifica, con applicazione delle sanzioni, in presenza di un occultamento di corrispettivo.
Pertanto, la clausola contrattuale che imponga alle parti di indicare nel definitivo un valore – pari a quello risultante dalla moltiplicazione del valore catastale per i coefficienti di legge – inferiore al corrispettivo effettivamente pattuito, è nulla, in quanto contraria alla disciplina dell’imposta di registro, come disposto dall’art. 62 del DPR 131/86. Tale norma, infatti, espressamente, sancisce la nullità “anche tra le parti” dei patti contrari alle disposizioni del DPR 131.
Quindi, una volta appurato che la clausola apposta al preliminare era nulla, la Cassazione si domanda se essa fosse “essenziale” e, quindi, contagiasse anche l’intero contratto o se, al contrario, esso potesse mantenersi in vita anche senza di essa (a norma del’art. 1419 c.c.). In proposito, la Suprema Corte ritiene che, nel caso di specie, la clausola non potesse essere considerata essenziale e, quindi, la sua nullità non si trasmettesse all’intero contratto. Ciò a prescindere dal fatto che la pattuizione relativa al regime fiscale fosse rafforzata da una clausola risolutiva espressa.
La clausola risolutiva espressa è anch’essa nulla
Infatti – scrive la Corte – l’ordinamento non può considerare inadempiente (e, quindi, tale da determinare la risoluzione del contratto ed il risarcimento del danno) “il comportamento rispettoso delle prescrizioni della legge tributaria, solo perché quel comportamento si discosta da un patto in frode al fisco”.
Inoltre, in virtù del principio di conservazione del negozio giuridico, l’estensione della nullità all’intero negozio deve essere limitata ai casi in cui la parte che vuole avvalersene dimostri la sua essenzialità rispetto al negozio. Quindi, poiché nel caso di specie non è stata fornita la prova che l’assenza della clausola affetta da nullità avrebbe privato il contratto della sua originaria ragione giustificativa e dell’utilità che le parti perseguivano, si deve ritenere che il contratto mantenga la propria efficacia.
 / Anita MAURO
FONTE:EUTEKNE

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