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giovedì 2 giugno 2011


Se la riforma fiscale diventa la linea del Piave

/ Mercoledì 01 giugno 2011
Fare la riforma fiscale.
Fino a qualche giorno fa era un leitmotiv del governo e della sua maggioranza; dopo i risultati delle elezioni amministrative, è già diventato una sorta di vero e proprio mantra esistenziale cui aggrapparsi.
Il Paese non chiede di meglio, dopo più di quindici anni di leggi aventi come unico comune denominatore le esigenze di gettito, conditi da autentici atti di arroganza legislativa come l’IRAP.
Il punto è che i margini d’azione sono veramente ridotti all’osso.
Per raggiungere l’obiettivo del pareggio di bilancio sul 2014 (che non è un inutile narcisismo, ma, con questi tassi di crescita, una reale necessità), abbiamo davanti a noi una manovra da almeno 40 miliardi di euro.
Sarà già un’impresa riuscire ad attuarla senza aumentare la pressione fiscale; pensare di aggiungerci sopra, prima di allora, anche riduzioni di imposte, è oggettivamente impossibile.
Anche perché, nei giochi delle coperture finanziarie, diventa pure difficile giocarsi per l’ennesima volta la wild card di norme che inaspriscono la lotta all’evasione fiscale.
È dal 2006 che, prima con Visco e dopo con Tremonti (alzi la mano chi, salvo un breve raggio di sole nel 2008 e le recenti esternazioni del 2011, si è accorto che si sono succeduti due governi con concezioni, in teoria, profondamente diverse su quello che dovrebbe essere il corretto approccio tra Stato e cittadino), si assiste a norme sempre più pervasive sul fronte dell’accertamento e sempre più teutoniche sul fronte della riscossione: tutto bene, non fosse che ci si dimentica sistematicamente di potenziare del pari il sistema della giustizia tributaria, lasciando così il cittadino a confrontarsi con una controparte che merita il rispetto dovuto a chi svolge le funzioni di PM per conto dello Stato, ma che chiaramente non può essere confuso con un giudice imparziale rispetto alle accuse mosse.
Se questa riforma fosse stata fatta nel 2003, quando fu effettivamente varata una legge delega di ampio respiro, che, però, si tradusse all’atto pratico nella sola revisione dell’imposta sul reddito delle società, i margini d’azione sarebbero stati assai maggiori.
Sono considerazioni come ad esempio questa che rendono assai difficile non essere d’accordo con Emma Marcegaglia quando dice che il Paese ha sostanzialmente gettato al vento gli ultimi dieci anni.
Oggi, la riforma fiscale la possiamo fare ed anzi la dobbiamo fare, ma è impensabile, con questi ridottissimi margini di azione, che possa essere di per se stessa uno strumento di rilancio dell’economia del Paese.
Oggi la riforma fiscale non può essere strumento di rilancio di per sé
Quello che oggi possiamo e dobbiamo fare è rimuovere le iniquità più inaccettabili, a cominciare dall’assurda penalizzazione dei redditi di lavoro rispetto ai redditi di derivazione patrimoniale e dalla indifferibile rimodulazione del prelievo IRAP tale per cui, nell’invarianza di gettito, l’imposta smetta addirittura di premiare chi delocalizza all’estero rispetto a chi produce in Italia.
È eliminare la giungla di detrazioni, deduzioni, regimi sostitutivi e incentivi che rendono il sistema farraginoso e incomprensibile, restituendogli linearità anche formale, con una opportuna codificazione.
È ridurre gli adempimenti che sono stati lasciati crescere a dismisura.
È ridisegnare un rapporto Fra fisco e contribuente che metta al centro la giustizia tributaria e non la riscossione, potenziando la prima per non aver bisogno di depotenziare la seconda.
È ridare certezza alle regole, smettendo di usare concetti come l’elusione fiscale e la normalità economica alla stregua di clave per rimettere sempre in discussione ciò che i contribuenti dichiarano (cosa assai più facile da fare che scovare quelli che non dichiarano), ma anche elevando a norma di rango costituzionale lo Statuto del contribuente e subordinando a maggioranze parlamentari particolarmente elevate l’approvazione di leggi di condono fiscale, così da riportarle da evento normale e prevedibile all’evento eccezionale ed improbabile che in uno Stato civile devono essere.
Sono tutte proposte che i commercialisti italiani hanno presentato ai tavoli della riforma fiscale e dettagliato anche in occasione della loro recente assemblea nazionale annuale.
La cosa peggiore che può capitare oggi al Paese è una riforma del fisco fatta in chiave elettorale.
Speriamo bene.

1 commento:

  1. ...COME SEMPRE IL DR ZANETTI è CHIARO, DIRETTO ED ESAUSTIVO....CONCORDO SULL'INIQUITA' DELL'IRAP....DAVVERO ASSURDA, CHE FINISCE PER PENALIZZARE ULTERIORMENTE ANCHE IMPRESE GIA' IN CRISI.....CONCORDO SULLA GIUNGLA DI DEDUZIONI E DETRAZIONI....BASTEREBBE UN SISTEMA PIù SEMPLICE....SENZA CONTARE GLI ADEMPIMENTI...TROPPI, COMPLICATI ...ED ALCUNI INUTILI....( SE SI PENSA CHE HANNO INVENTATO L'UNICO AL POSTO DEL 740, PER COMPRENDERVI TUTTO.....ED ORA POCO PER VOLTA, LO STANNO SMINUENDO....TOGLIENDOCI QUALCHE PEZZO....)..NON CONCORDO AHIME', SULL'OTTIMISMO FINALE......QUELLO DI UNA TENUE SPERANZA CHE FACCIANO BENE IL LAVORO PER IL QUALE SONO STATI VOTATI...MA CREDO CHE LA SPERANZA NON SIA NEANCHE TENUE....POI NON CI CHIEDIAMO PERCHè IN QUESTO PAESE C'è TANTO ' NERO', XCHè LE IMPRESE CHIUDONO O INVESTONO ALL'ESTERO, XCHè I CERVELLI VANNO VIA....E I GIOVANI CHE RIMANGONO SONO IN ETERNA LOTTA SPIRITUALE....TRA IL DIRE E IL FARE....

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